4/ Voci dal silenzio … Fuga nell’oblio

I RACCONTI DI ELETTRA DE MARIA

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… CI MISERO UNA CROCE SOPRA … 

FUGA NELL’OBLIO

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Dodici anni.

Avevo dodici anni e mi chiamo Felicita.

La febbre non mi lascia e sento che sto morendo, ma ora so, ora ricordo.

So di avere settantasei anni e che sono nata Castro.

Castro! Voi forse non sapete nemmeno dov’è perché non esiste più.

Accanto a me notte e giorno mi assiste una giovane monaca, ma ho la vista annebbiata e non riesco neanche a vederla. Sento la sua voce melodiosa e mi ha detto di chiamarsi Cecilia. Cecilia Baij, mi sembra.

La mia storia!

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Gerard Ter Borch,Donna che scrive

Fino a poco tempo fa non avrei saputo dire altro che ciò che mi hanno raccontato: un soldato mi ha trovato vagare nei boschi a strapiombo sull’Olpeta e, diretto a Roma, passando per Montefiascone, mi ha lasciato qui, al monastero delle benedettine, dove sono cresciuta e restata per sempre.

Il silenzio, la pace di questo luogo sono stati sollievo e ristoro per la mia anima. Il mondo, di cui sentivo orrore, rimaneva fuori ed io mi sentivo protetta da una me stessa che all’improvviso non c’era stata più. Con le altre monache levavo preghiere e canti a Dio e ogni volta mi pareva di non seguirne le parole, ma solo di riuscire a volare via da questa vita senza senso.

Montefiascone, Porta Santa Lucia e ingresso Collegio delle Benedettine (1900)

Cartoline postali antiche viaggiate e non- Collezione Marcello Mari

Montefiascone, Collegio convitto delle benedettine (1900)

Cartoline postali antiche viaggiate e non- Collezione Marcello Mari

E’ accaduto appena poco tempo fa quando una consorella un giorno mi ha condotto in cantina a prendere il vino per la messa. Non ero mai scesa laggiù: quello era il posto dove venivano e lavoravano il fattore e i contadini.

Lungo le scale ho cominciato ad avvertire una strana sensazione e, arrivata giù, sono svenuta. Forse i fumi del vino hanno detto le altre monache, ma quando mi sono risvegliata nel mio letto ho ricordato tutto e tutto avrei voluto di nuovo dimenticare.

Castro, la mia città con le sue tredici chiese: Castro con la sua piazza, il palazzo ducale, l’Hostaria, la Zecca. Castro, con la casa di mio padre.

Mio padre! Era giudice di quella città e si occupava di tutte le cause criminali, ma contro il crimine più terribile niente poté. Sì, perché terribile fu la devastazione, l’annientamento che ci colpì.

Era l’estate del 1649: tutto mi è tornato presente nella mente in quella cantina che ricordava quella della mia casa dove si accumulava ogni ben di Dio.

Ischia di Castro, La Rocca Farnese

Abitavamo di fronte alla cattedrale di san Savino in una abitazione che conservava ancora i fasti dello splendore del mio paese quando Castro era diventata il centro del ducato che Paolo III aveva costituito per il figlio Pier Luigi.

Queste cose, che appartenevano ad un secolo prima, era stato mio padre a raccontarmele: il grande architetto Antonio da Sangallo il giovane aveva progettato edifici e chiese meravigliose che ne avrebbero fatto una nuova Pienza, anzi più bella, anche se io di Pienza non so nulla e neanche dove si trovi: ma questo mi diceva. Sì, allora era stata destinata a diventare degna di accogliere i più illustri personaggi romani abituati al lusso e allo sfarzo.

Ma l’illusione era stata di breve durata.

Solo pochi anni dopo il duca si era trasferito nel ducato di Parma e Piacenza ed era cominciata la decadenza: tante opere mostravano evidenti i segni di non essere state portate a termine e tutto era cambiato.

La bella vita di Parma aveva bisogno di denaro e a Castro era rimasto solo il triste compito di contribuire con le sue rendite a sanare i debiti sempre più pesanti che i Farnese dovevano alle banche di Roma.

Ma, a quanto pare, nessun sacrificio era stato sufficiente e, quando avevo appena quattro anni, c’era stata una guerra e con quella si sperò che tutto fosse passato.

Ecco, è questo che ricordo nei momenti di lucidità quando apro gli occhi guardando nel vuoto verso il soffitto. Ma poi, quando prevale il delirio della febbre, balenano come lampi nella mia mente altre luci, suoni, colori.

Pochi anni prima della fine furono per me i più belli.

Avevo un precettore gentile e passavo ore rapita accanto alla mamma che suonava un vecchio clavicembalo rimasto in casa da quasi cento anni, strano ricordo dei bei tempi.

La mamma ogni tanto si voltava verso di me e sorrideva.

Che sorriso aveva la mia mamma!

Giocavo con i miei compagni davanti casa e mio padre mi lasciava stare liberamente in compagnia con ogni bambino.

Ci si conosceva tutti -ormai non eravamo forse più di ottocento abitanti!- e lui non faceva distinzione fra personaggi importanti o umili, era gentile verso tutti e, se poteva, tutti aiutava.

Ricordo il mio amico più caro: Giulio si chiamava.

Giocavamo con la palla, a nascondino e mille altri giochi diversi. Ricordo anche che ci divertivamo a prendere in giro un povero mentecatto che ogni tanto compariva in paese e che rideva contento con noi.

Giulio… Ecco ora, sì rammento… e quanto mi fa male!

Una sera, al tramonto, eravamo seduti sugli scalini di San Savino e guardavamo le sculture degli animali fantastici che ne ornavano la facciata.

Ischia di Castro, Rocca Farnese

foto by Gioacchino Bordo

Era agosto e aspettavamo lì la statua della Madonna portata in processione dalla chiesa di Santa Maria intus civitatem! Quella statua! Come aveva fatto tutto questo a cancellarsi dalla mia mente e dal mio cuore?

-Proprio qua, mi disse. In questa chiesa ti voglio sposare.

Mi sembra di sentire ancora la vampa di calore che provai in quel momento!

Fu l’ultima estate. Mai più sarebbe stato quello che ci sembrava potesse perpetuarsi per sempre.

L’anno successivo il papa, Innocenzo X Pamphilj, intimò al duca Ranuccio di pagare i suoi enormi debiti e non aspettava che un pretesto per annientare i Farnese: l’uccisione del vescovo Giarda da lui inviato, ma non riconosciuto dal duca Ranuccio che assoldò sicari, gliela fornì. Era il 18 marzo 1649. Lo rammento ora con certezza perché ne parlò mio padre alla mamma quel giorno in cui sembrò avere incisi sul volto i segni di una preoccupazione mortale.

Poco dopo, sotto Castro, si cominciarono a vedere migliaia di soldati, cavalieri, cannoni. Nomi sconosciuti passavano di bocca in bocca: il conte Davide Vidman, Girolamo Gabrielli e tanti altri, nomi che avevano il sapore del sangue e della distruzione perché con essi si diffuse la notizia che il paese dovesse essere spianato dalle fondamenta.

Sì, ci fu qualche tentativo di creare difficoltà al nemico con una spingarda sul campanile e si causò la morte di qualche soldato, ma ben presto un cannone dei papalini colpì il campanile che crollò con dentro il difensore.

Forse dalla mia bocca è uscito un lamento e madre Cecilia mi sta bagnando la fronte: la febbre deve essere davvero alta, ma lei non sa -come potrebbe?- che ciò che mi brucia davvero è dentro, è il ricordo.

Il rosso del sangue, il grigio della polvere alzata dai crolli delle case, la devastazione dei giardini, il crepitio delle fiamme, le urla, le bestemmie, il tentativo di difendere le proprie cose, la violenza dei soldati, i morti calpestati o sotterrati dalle macerie, mamme che cercavano i loro figli, figli che cercavano le loro madri. Chi riuscì a scappare poté mettere in salvo solo ciò che avevano potuto portare le braccia!

Io mi ero nascosta nella cantina cercando di non vedere e non sentire, ma, quando riuscii a venirne fuori, la mamma e il babbo giacevano morti l’uno abbracciato all’altra sotto il peso di un’architrave che li aveva lasciati sporchi e scomposti.

Io non so se fu allora che ho urlato o ho cominciato a dimenticare!

Ricordo ora Giulio uscire indenne dalle macerie di San Savino e pendermi per mano mentre io afferravo, senza coscienza e senza senso, un frammento di una scultura della chiesa che non ho più lasciato neanche quando Giulio correndo mi ha condotto fuori la città nel fitto della vegetazione, non ho più lasciato quando lui è scivolato giù nella forra e il tonfo mi ha lacerato l’anima, non ho più lasciato neanche quando sono stata trovata e risparmiata e portata qui. E ora quel frammento sta sul comodino vicino al rosario e al crocifisso e ho chiesto a madre Cecilia di riporlo nella tomba accanto a me.

Ecco, ora sto riuscendo a girarmi per guardarlo e, per la prima volta, dopo una vita intera in convento, mi accorgo che, guardando la croce, riesco a pregare davvero.

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L’arcangelo Uriele conduce San Giovanni nel deserto – dettaglio affresco della chiesa di Santa Maria in Civitatem (Prima cattedrale di Castro)- Museo Civico Archeologico  “Pietro e Turiddo Lotti” Ischia di Castro – Sala 5 (Fase Medioevale- Rinascimentale) clicca qui 

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