Ennio De Santis “….un poeta inconsapevolmente colto”

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Ennio De Santis “….un poeta incon­sapevolmente colto”

di Domenico Rea 

Non si può parlare della vita e della poesia di Ennio De Santis senza dire: 1) la nascita, 2) la territorialità, 3) la fisicità georgica e pastorale.

De Santis nasce in una parte singolare ed eccezionale d’Italia, l’Alto Lazio, in una ci­viltà antichissima, con tappe che si chiamano: Tuscania, Tar­quinia, Bomarzo, i dolci laghi, la prisca Viterbo, un capoluogo di provincia che è un’isola orgogliosa e poco consumistica all’in­terno del Lazio; figlio di contadini e deciso a rimanere tale; non frequenta alcuna scuola; sfocerà nella poesia perché, destinato a guardare le pecore, nei lunghi meriggi impara a compitare e a leggere versi, che gli riusciranno, oltre che congeniali, più facili della prosa.

Conosce alla perfezione, al fiuto e allo spuntare dei colori, le sta­gioni, le opere e i giorni della terra, la terra vista come una dea del Bene e del Male, e la seminagione, la fioritura, la raccolta dei frutti e del latte, i silenzi, il cielo stellato, il navigare e accavallarsi delle nubi, come i fulmini e i tuoni delle tempeste, vissuti e subiti in maniera primigenia.

Ma da questa mia breve nota anagrafica vorrei che spiccasse dal tutto un concetto di fondo. De Santis non si lascia incantare. Sa che la sua forza (la fonte) risiede nella sua condizione nativa. La borghesia sociale e letteraria non costituisce attrattiva di sorta. La ignora. Non saprebbe che farsene.

E ho buone prove per dire che, conoscendola, non saprebbe usarla in nessuna maniera; tanto meno per fare carriera.

Sono note realistiche che, nel presentare questo poeta hanno una loro importanza.

De Santis, all’alba e al tramonto, sta (deve stare) con il suo gregge.

Il gregge e i suoi frutti; formaggio, lana e carne gli danno i mezzi per vivere. Sta in campagna dove si mangia, per chiudere tutto in una metafora, pecora lessa, il conseguente brodo, che fece forti gli eroi di Omero, ed erbe pur mò colte.

Campagna e pastorizia collocate in luo­ghi a nord di Viterbo, tra Montefiascone e Piansano, dove il vino dorato é l’acqua necessaria per qualsiasi battesimo, incon­tro o amicizia.

Da questa solitudine incantata, dal colloquio con se stesso spunta il lavoro di questo autore di cui sorprendente rimane la letterarietà dei versi. È un punto, questo, da sottolineare. Quando ebbi il primo contatto con la sua prova la scambiai per quella di un letterato consumato. E questa, a prima vista, e a prima lettura, rimane l’impressione.

Ma ove si avrà la pazienza di andare più a fondo, di spiarne gli interstizi dei suoi versi, galleggerà una serie di debolezze strut­turali, di sbalzi e corruzioni sintattici, di uso di voci che da at­tive diventano passive, ma non riescono a smontare o ad offu­scare alcuni frequenti tratti  vergini; talvolta barocchi, tal’altra metafisici.

Resta sorprendente come in qualsiasi modo nasca la lirica della nostra lingua, sale su un piedistallo “culto” e corre il rischio della retorica. Se si ha fede in quel che ho scritto, il caso De Santis é esemplare. Non ha una preparazione scolastica o accademica; non conosce (o non dovrebbe) i mille trucchi del mestiere; non ha a portata di mano il sinonimo di comodo o la metafora riciclata dai tempi lunghi della nostra lirica; ma, quasi per via genetica e antropologica, a monte del suo lavoro sono riconoscibili gli stessi punti di partenza di tanti altri; particolari che dimostrano che una autentica verginità nella nostra lirica (come nella narra­tiva, nella pittura, scultura, musica, architettura, ecc.) rimarrà un’utopia.

Il nuovo, o meglio un nuovo modo di sentire e di esprimere, va ri­cercato negli angoli, negli spigoli, nelle nuances, nelle cose la­sciate cadere e in qualche lucido momento di estasi che nel De Santis sono frequenti. I richiami nelle liriche che qui di seguito si sottopongono all’at­tenzione benevola del lettore, sono evidenti; ma altrettanto ap­paiono palesi gli “empiti originali istintuali e carnali” di questo singolare poeta.

È questo lo spettacolo che si può cavare oggi da un poeta incon­sapevolmente colto che vive come fanciullo tra tremori ed errori, estasi e angosce.

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