2/ Voci dal silenzio … Castro muore

I RACCONTI DI ELETTRA DE MARIA

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UN SILENZIO CHE SA 

 DI  PRESAGIO .. DI DISTRUZIONE.. DI RASSEGNAZIONE ….

CASTRO MUORE

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-E’ un oriolo!- Il ragazzo si voltò all’improvviso, ma subito tornò a scrutare fra i rami degli alberi.

L’oriolo, o qualunque uccello fosse, era volato via. 

– Arrivano a primavera per nidificare e il canto è bellissimo! Wueela-wee-ooo – fischiettò il vecchio come rapito e poi, subito dopo – ma tu vieni da Castro vero? Che ne sapete voi di uccelli! Quei pochi alberi sono stati abbattuti da un secolo, quando al duca venne in mente di chiamare quell’Antonio da Sangallo per fare grande ciò che al mondo è destinato a cadere e i rari uccelli, che per caso vi arrivano, immediatamente finiscono sulle vostre tavole! Il vecchio aveva parlato tutto d’un fiato, come uno che non sia abituato a farlo e, quando gli capita, dà la stura alle parole tutte insieme.

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… mentre la natura rinasce…

SONO RANUCCIO... RANUCCIO DELLE VOCI ...

Ranuccio era rimasto come impalato a guardare con la bocca semiaperta quella strana apparizione. Aveva la barba e i capelli lunghi, lunghe anche le unghie delle mani e certo più nere delle sue. Mentalmente confrontò il suo vestito, con qualche toppa, sì, ma abbastanza pulito, con quello del vecchio: oltre che lacero sembrava corteccia d’albero che stesse in piedi da sola tanto era sporco, ma i suoi occhi erano buoni, gli occhi di una persona che sa guardare le cose e il mondo come fossero trasparenti e la sua voce… oh la sua voce era così armoniosa!

Aveva sentito parlare dei romitori, ma non si era mai spinto da quella parte e non aveva mai incontrato nessuno che abitasse in quelle grotte tufacee.

-Si, certo, di uccelli voi non ne sapete proprio nulla! Come ti chiami, ragazzo? – Lui c’era rimasto un po’ male: proprio a lui dire una cosa simile…– Sono Ranuccio… Ranuccio delle voci: mi chiamano così perché so riconoscere gli alberi dallo stormire delle fronde, gli insetti dal loro ronzio… Ma la mia specialità sono gli uccelli. Sono piuttosto famoso in città. Di notte a volte resto sveglio ad ascoltare il verso stridulo della civetta o quello inquietante del barbagianni: l’allocco capita poco perché preferisce i boschi. Di giorno mi innamorano le taccole del campanile, ma poi vado in cerca di capinere, upupe, allodole. Sono piuttosto famoso in città, te l’ho già detto, vero? -ripeté orgoglioso. Ancora una volta Ranuccio ebbe l’impressione di essere trasparente agli occhi del vecchio, come se essi lo trapassassero per cogliere qualcosa oltre di lui. -Dunque tu sai riconoscere le voci? Bene! Ascolta! Cosa senti adesso?-

Il sole era alto sull’orizzonte, la primavera inoltrata sapeva ormai di estate e c’era come un’atmosfera affocata, le cicale ancora non facevano sentire il loro frinire e anche gli insetti sembravano esser restati improvvisamente muti. -Non sento nulla! -disse Ranuccio. -Sbagliato! -lo corresse il vecchio. -Quello che stai ascoltando è il silenzio! Impara a conoscere le voci del silenzio! Quando avrai imparato a conoscere quelle allora veramente sarai Ranuccio delle voci! Ora -senti?- ci sta dicendo che la natura è in pace con se stessa. Ma certo che per il silenzio degli uomini è tutto più complicato!

Il ragazzo restò un attimo assorto a pensare a quelle parole e quando tirò su lo sguardo il vecchio era sparito.

Ci mise un bel po’ quel pomeriggio Ranuccio a tornare a casa. Dava calci ai sassi, avanzando senza convinzione, sollevava lo sguardo verso gli alberi più per abitudine che per interesse verso gli uccelli e, intanto, andava meditando le parole del vecchio: improvvisamente si era sentito diverso, come fosse diventato un’altra persona. Sì, avrebbe imparato a riconoscere le voci del silenzio e non l’avrebbe detto a nessuno: sarebbe stato il suo segreto.

Arrivato al limitare di Castro si mise in ascolto: giungevano echi di voci lontani, i rintocchi della campana, l’uggiolare lamentoso di un cane, ma insieme a questo un sottofondo di silenzio che sapeva come di ansia, di aspettativa di qualcosa di incerto e, forse, doloroso. Che cosa nascondevano quelle pause frammiste ai suoni che lui non aveva ascoltato mai?

La mamma, al telaio – quel sapiente tic tac che accompagnava le sue giornate!- lo accolse con un guizzo di luce negli occhi che diceva il sollievo di vederlo ritornare, ma subito la luce si spense con un sospiro sommesso. Ranuccio rimase seduto accanto a lei a guardarla, silenziosi entrambi fin quando il padre rientrò dai campi.

-Vi saluto,- disse. E poi più nulla. Che cosa stava accadendo? Anche la cena fu muta, ma lui non fu capace di leggerne la voce che si nascondeva nelle pieghe del silenzio. Sì, certo, sapeva bene quanto ci fosse sempre da pagare per i debiti che i Farnese avevano fatto, ma non poteva essere solo quello… Rimase sveglio tutta la notte ad ascoltare i suoni noti e le pause ignote, deciso a imparare a decifrarle.

Ischia di Castro (VT), Eremo di Poggio Conte

L’Eremo rappresenta una viva testimonianza del misticismo medievale realizzato in estrema solitudine, eredità elaborata della cultura ascetica orientale. Il percorso che raggiunge questo luogo dello spirito costeggiando il fiume Fiora è già per se stesso un cammino  interiore per chi è ancora capace di contemplazione …

UN’ATMOSFERA SOSPESA ...

Fu al mattino, andando nella Piazza Maggiore, che si accorse che la buona stagione non aveva riportato quell’anno i soliti fermenti di vita. C’era come un’atmosfera sospesa, pur nella quotidianità del lavoro, che gravava sul cuore di tutti. Era come se l’udito, fattosi attento nei momenti in cui non risuonavano voci, avesse reso più attenta anche la sua capacità di osservazione. La piazza era sempre bella con la sua pavimentazione perfetta, ma intorno gli sembrava di vedere per la prima volta le tracce della guerra di qualche anno prima, vedeva i palazzi di quel -come l’aveva chiamato il vecchio?- ah, sì, di quell’Antonio da Sangallo…  mai terminati e che già avevano i segni dell’abbandono e gli prese uno scoramento! Uno scoramento di cui non sapeva darsi ragione. Cominciò a leggere il silenzio del pianto negli occhi cerchiati delle donne, il silenzio della preoccupazione nei bicchieri di vino ingollati giù -come potessero essere gli ultimi!- dagli uomini, il silenzio della rassegnazione nello scuotere del capo dei vecchi e si chiedeva perché. Spesso se ne andava sul bastione a strapiombo sull’Olpeta, si sedeva e lanciava sassi che rotolavano lungo la scarpata interrompendo quel silenzio che cominciava a far male pure a lui.

I giorni seguenti furono uguali in quell’estate rovente: c’era intorno come l’aspettativa che qualcosa di tremendo potesse abbattersi su Castro. E fu gironzolando intorno al palazzo ducale che una sera sentì diffusa la notizia che la rabbia di papa Innocenzo X contro il duca Ranuccio II si stava concretizzando in quella che forse sarebbe stata un’altra guerra: il nuovo vescovo, Cristoforo Giarda, inviato dal pontefice, era stato ucciso in marzo sulla Cassia dai sicari del Farnese.

ORRORE SU ORRORE, GRIDA SU GRIDA

Fu in settembre – era l’anno del Signore 1649- che arrivarono i primi soldati e la tragedia che si stava per abbattere su Castro fu subito chiara.

Ranuccio, al tempo della guerra di qualche anno prima, era ancora piccolo e ne aveva solo un vago ricordo: era ora, per la prima volta, che vedeva uno schieramento tanto imponente. I soldati, protetti dagli elmi e dalle piastre dell’armatura, quasi non si vedevano: cavalli, archibugi, lance, picche passavano al galoppo nella città sovrapponendosi allo sguardo gli uni alle altre in un indistinguibile moto continuo portando ovunque morte e distruzione. Chi aveva subito compreso la gravità del momento era fuggito nelle selve, altri, che non avevano capito o potuto, restarono alla mercé di quella brutale soldataglia.

Ranuccio vedeva, vedeva e ascoltava: orrore su orrore, grida su grida, tramestio su tramestio, lo scalpitare dei cavalli, il crollo delle case. Che strano! Guardava tutto come al rallentatore e -proprio lui, Ranuccio delle voci-  non sentiva nulla come se lo scompiglio, il caos di quei momenti avessero raggiunto una soglia che l’udito non percepiva più o si rifiutava di percepire agognando il silenzio.

Fu nei primi giorni di novembre che sentì i suoi genitori chiamarlo invano mentre correvano via, ma lui non poté raggiungerli perché in quel momento si era allontanato verso San Savino. Mentre arrivava uno squadrone aveva incontrato il prete che lo aveva strappato dalla strada e spinto dentro la chiesa: -Qua dentro avranno rispetto! -aveva detto. Tu prega, affidati al Signore che ti proteggerà.

Furono le ultime parole dette dal prete che fu trafitto dalla lancia di un soldato: Ranuccio vide il cavallo scalciare con le zampe che aggredivano l’aria, sentì il suo nitrire e avvertì il fiotto di sangue sgorgare dal collo dell’uomo. Non capì mai come avesse fatto a ritrovarsi in quel passaggio nascosto fra la chiesa e la cantina: ci sono momenti in cui la consapevolezza lascia il posto all’istinto.

Ranuccio per il momento era riuscito a mettersi in salvo.

Castro, Campagna di scavo 1997

NELLA PRIGIONIA FORZATA .... IMPARÓ A LEGGERE I SILENZI

Fu forse proprio in quei giorni di prigionia forzata che il ragazzo imparò davvero a leggere i silenzi. Non passò molto tempo che le voci degli abitanti di Castro non si udirono più: fuggiti? morti? Ranuccio non lo sapeva: riconosceva solo il parlare delle truppe papaline dall’accento diverso e, soprattutto, sentiva sovrapporsi al silenzio la distruzione sistematica della città, i crolli continui, l’abbattersi al suolo dei blocchi di tufo o, con un suono diverso, del travertino che avevano reso Castro così bella. E poi il silenzio, tanto silenzio -che sapeva di morte!- sgusciare, insinuarsi tra le ore del giorno ed imporsi sempre più a lungo fino a diventare l’unica voce che coincise con quella del suo cuore. Era come se questo silenzio lo avesse improvvisamente reso adulto, in grado di cogliere la caducità della vita e delle cose.

Quando Ranuccio -era ormai dicembre inoltrato!- capì che Castro era stata abbandonata uscì dal suo nascondiglio e vide. Vide che non c’era più nulla da vedere e da sperare, che la città non esisteva più, che l’operosità di tanta gente era stata vana, che i grandi edifici che l’avevano resa famosa nei paesi vicini erano ormai un cumulo di macerie senza vita e senza senso, che la vita stessa a volte non ha senso.

Ranuccio cercò di avere notizie dei suoi genitori, ma non ne seppe più nulla. Girovagò a lungo nelle selve finché ritrovò il romitorio del vecchio che non c’era più e per anni ne prese il posto. Cosa fece Ranuccio in quel tempo? Ascoltava i silenzi che si imponevano più impetuosi del gorgogliare del fiume, più melodiosi del canto degli uccelli, più intensi della pioggia di primavera, più violenti dei temporali estivi, più soffocati delle nevi dell’inverno perché ogni silenzio era un moto del suo cuore.

Un giorno, tanti anni dopo, Ranuccio volle tornare a Castro. Mai, pur avvertendo nel ricordo l’eco della vita che vi aveva vissuto, aveva sperimentato silenzio tanto profondo: il silenzio dell’abbandono, il silenzio della natura che si riappropria di ciò che è suo facendosi beffe delle illusioni dell’uomo.

La boscaglia aveva cominciato a invadere le macerie. Tendendo l’orecchio d’un tratto avvertì un suono flautato, inconfondibile: weela-wee-ooo. L’oriolo! Lui alzò gli occhi verso quella creatura: il giallo spiccava tra i rami di un querciolo mentre batteva le sue ali nere come la notte.

Ranuccio abbassò la testa e, per la prima volta, sentì la voce del suo pianto.

Caspar David Friedrich,L’Abbazia nel querceto (1810) Alte Nationalgalerie, Berlino

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