Le domande del pastore … I silenzi della Luna

I racconti di Elettra De Maria
foto by Gioacchino Bordo
LE DOMANDE DEL PASTORE ... I SILENZI DELLA LUNA

Stese in terra il tabarro come coperta in cui avvolgersi per la notte, ma poi ci ripensò e rimase lì, seduto, inerte, senza pensiero. La sera ormai era scesa, il gregge riposava, il cane, che durante il giorno aveva fatto il suo dovere, era accoccolato lì accanto. Lui tirò fuori dalla sacca pane e formaggio e cominciò a sbocconcellare. Qualche nuvola in cielo non riusciva a coprire del tutto il chiarore della luce della luna, unica compagna del suo interminabile camminare, e il cielo era vuoto di stelle.

Volse allora lo sguardo alla vallata ai suoi piedi di cui conosceva ogni singolo cespuglio, roccia, crepa del terreno, forra, anfratto. Quante volte l’aveva percorsa? E’ vero, era un pastore ancora giovane, ma gli sembrava di essere in vita da un’eternità scandita dagli stessi gesti, gli stessi passi, gli stessi ritmi, come un rito da ripetere uguale all’infinito. Quale senso poteva avere? Era dunque nato per questo, senza altra speranza? Che strano! Non aveva mai avuto di questi pensieri, ma chissà… Il silenzio intorno a lui gli sembrava assordante.

Ma può essere assordante il silenzio?

Forse, proprio per non sentirne più la voce, stava invece recuperando le sue voci di dentro.

Sì, si diceva, perché tutti abbiamo delle voci dentro che ci pongono mille domande, che fanno scaturire mille pensieri su quale sia il significato del nostro essere al mondo e se poi questo significato c’è. E la sofferenza che ci accompagna, la morte che inesorabile ci aspetta…

Chissà… forse proprio per soffocare queste voci sovrapponiamo al silenzio altre voci, suoni, rumori che ci stordiscono, inebetiscono, quasi droga per dimenticare la nostra fragilità e creare nell’uomo l’illusione di avere un posto privilegiato nell’universo. Beate voi, care le mie pecore, che queste domande non ve le ponete nemmeno e la vostra vita va avanti tranquilla e non sentite il peso delle mie giornate vuote e stanche: o chissà… invece forse no… anche per voi l’esistenza è condanna e affanno!

Giacomo, il pastore, aveva la sensazione che l’intera volta celeste gravasse su di lui, non si udiva nemmeno lo stormire di una foglia, come se il mondo stesse trattenendo il respiro per dare voce ai suoi pensieri mentre le ombre correvano sulla vallata al passaggio veloce e silenzioso delle nuvole. A un tratto però il cielo si aprì e, come un miraggio d’argento, apparve la luna. Gli sembrava di non averla mai vista così piena e lucente, quasi una visione che potesse ridare senso alla vita e all’universo tutto, come portatrice di quella consapevolezza che gli uomini non riescono a trovare e di speranza che forse un senso c’è per ogni vita e, per questo, forse anche per la sua: in ogni caso compagna del suo fatale andare.

Fu così che, nel silenzio della notte inondata d’argento, Giacomo il pastore si rivolse ad essa in una tacita domanda che era poi come l’urgenza di una preghiera, il desiderio di una risposta impossibile da appagare.

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

di riandar i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

di mirar queste valli?

(Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia)

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PER ANDARE OLTRE ...

Giacomo Leopardi conobbe nel 1828 la relazione pubblicata dal viaggiatore russo Meyendorff intorno ad alcune popolazioni dell’Asia centrale. Egli lesse che molti tra i Kirghsi avevano la consuetudine di passare la notte seduti su una pietra  contemplare la luna improvvisando parole assai tristi su arie che non lo sono meno. Da questa notizia nacque, dopo una lunga elaborazione, tra l’ottobre del 1829 e l’aprile del ’30, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Leopardi immagina che il pastore si rivolga direttamente alla Luna e la interroghi sul significato dell’esistenza, sul dolore universale, sullo scopo e sulle ragioni dell’universo.

Terminata la lettura del canto non ci rimangono di esso solo i concetti ma soprattutto la voce del pastore e il fascino di quel colloquio con la luna, a cui il pastore si rivolge con le parole più caste e più intime, vergine, intatta, giovinetta immortale, silenziosa.

Questo è veramente il canto più religioso di Leopardi, di una religiosità estranea ad ogni fede rivelata, ma non per questo meno intima ed alta. Il canto in cui è espressa la pena suprema del tedio, che è per  Leopardi la sensazione prima e fondamentale dell’uomo.

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Noi siamo i co-creatori dell’Universo… Nulla può resistere all’ardore della nostra azione e del nostro pensiero. Tuttavia, il  pericolo maggiore che possa temere l’umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori, è invece quella malattia spirituale, la più terribile, perché il più direttamente umano dei flagelli, che è la perdita del gusto di vivere.

T. de Chardin

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