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CASTRO
Riscoperta dell’antica capitale farnesiana
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a cura della Dott.ssa Anna Laura
Direttrice del Museo Civico Archeologico “Pietro e Turiddo Lotti” – Ischia di Castro
Le suggestive rovine della città di Castro, progettata da Sangallo il Giovane per la famiglia Farnese e distrutta per ordine di Papa Innocenzo X Pamphili, immerse in un parco archeologico e naturalistico, costituiscono una memoria fondamentale della storia della Tuscia …
Il territorio di Ischia di Castro nella media valle del Fiora, al confine fra Lazio e Toscana, offre oggi al visitatore non soltanto luoghi ancora incontaminati, ma un notevole paesaggio storico, che la mano dell’uomo ha connotato con impronte millenarie.
Il panorama naturale, a tratti aspro e selvaggio, si presenta infatti in armoniosa simbiosi con i numerosissimi resti archeologici che attestano una continuità di frequentazione umana e di civiltà dalla Preistoria al Rinascimento. Siamo nel cuore della Maremma viterbese, regione che vanta località prestigiose per l’archeologia, etrusca in particolare; basti citare Vulci, Tuscania e Tarquinia ed, al confine toscano, Sovana e Pitigliano, costellate di gioielli romani, medievali, rinascimentali.
Racchiusa nel territorio di questo piccolo Comune, si estende l’area archeologica delle necropoli etrusche e della distrutta città rinascimentale di Castro, di cui Ischia ha ereditato non soltanto il nome e la notevole entità culturale, ma l’intera estensione territoriale. La totalità del sito costituisce una delle maggiori evidenze storiche in tutto il comprensorio dell’Alta Tuscia, importante non solo per il suo valore scientifico, ma anche per la possibilità di interesse turistico.
Ricchissima di storia, e dal 1649 città morta, Castro si presenta oggi con le sue rovine commiste al bosco cresciuto sui resti degli edifici rinascimentali. I resti della città si estendono per una superficie di circa 3 ettari su uno sperone di tufo, a 230 metri di quota, circondato dal fiume Olpeta e dal fosso delle Monache, che ne costituiscono la naturale difesa. Le rovine disseminate sono nascoste, sotto un basso strato di terra, da una fittissima vegetazione. Addentrandosi nella foresta ci si immerge in un’atmosfera di grande fascino: sentieri e radure una volta strade, piazze, cortili, cumuli di macerie una volta case, palazzi e chiese si integrano nel variare delle stagioni ai colori della natura, sovrana custode secolare di questo prezioso segreto.
L’insediamento, di probabile origine villanoviana, divenne in epoca etrusca uno tra i più importanti e prosperi centri dell’Etruria meridionale (come dimostrano le ricche necropoli che lo circondano) da identificarsi secondo alcuni studiosi con Statonia, città etrusca citata da Plinio e da Vitruvio, prefettura romana dopo il 280 a.c. Ma il dibattito scientifico su tale identificazione è ancora aperto. Centro fiorente a partire dal VII secolo a.c. e soprattutto nel VI, conobbe nel V una crisi (sono infatti inconsistenti i dati relativi a questo periodo), per riprendersi poi nel IV secolo fino in età romana, epoca in cui la città etrusca diventa prefettura e acquisisce il nome tramandatoci: Castrum, accampamento, fortificazione.
Nel VII sec. d.C. a Castro viene trasferita la sede vescovile di Bisenzio, distrutta dai longobardi. Nel 749, in seguito alla distruzione della città di Vulci da parte dei Saraceni, Castro (chiamata allora Castello di Madonna Felicita, nome derivato probabilmente dalla proprietaria del momento), fu scelta per la nuova sede episcopale.
Dal 1154 il borgo fortificato di Castro entra a far parte del Patrimonio di S. Pietro al quale fu soggetto, con alterne vicende, fino al 1537, quando la famiglia Farnese lo acquisisce dalla Camera Apostolica, tramite una permuta con Frascati, dopo un tentativo fallito di conquistarlo con la forza nel 1527.
Ingresso laterale della Chiesa di San Savino
Per le sue caratteristiche di inaccessibilità, per la sua particolare configurazione e per l’ubicazione geografica (ai confini dello Stato Pontificio tra Firenze, Siena ed il mare), la città di Castro fu infatti contesa a lungo dalle nobili famiglie locali, fra le quali appunto la potente famiglia Farnese. Questa, dopo aver ricoperto con i suoi componenti cariche importanti in Orvieto, riuscì a formarsi un cospicuo feudo nella Tuscia con successive annessioni ed ebbe una sempre maggiore ascesa attraverso concessioni ed investiture papali; nel 1513 il possedimento comprendeva i centri di Ischia, Farnese, Latera, Canino, Gradoli, Isola Bisentina, Marta, Capodimonte, Valentano e la Badia di Vulci.
disegno del Sangallo per la facciata del Palazzo della Zecca (Archivio Uffizi n. 189)
Come già accennato, nel 1527 Pier Luigi Farnese, figlio del cardinale Alessandro, occupò la città provocando la reazione di Papa Clemente VII che gli inviò contro un altro Farnese, Galeazzo. Questi procedette con i suoi mercenari ad una sanguinosa e brutale opera di saccheggio della città che venne profanata con ogni sorta di scempi e nefandezze. Solo dopo l’elezione del Cardinale Alessandro Farnese al soglio pontificio come Paolo III, nel 1534, avrà compimento l’aspirazione di annettere ai loro possedimenti Castro, naturale appendice.
Il Papa nel 1537 istituisce per il figlio Pier Luigi il Ducato di Castro. La città di Maremma diventa così capitale di una Signoria che per estensione e territorio eguagliava molte altre più celebri dell’Italia centrale come Lucca, Urbino e Pesaro. Doveva per questo possedere un impianto urbano capace di accogliere degnamente tanti illustri personaggi abituati alla sfarzosa vita romana del tempo.
La ristrutturazione è affidata all’architetto Antonio da Sangallo il Giovane, che procede ad integrare le costruzioni medioevali con nuovi edifici rinascimentali ed elabora un nuovo assetto urbanistico della città che avrà nella piazza maggiore il punto focale di rappresentanza. Accetto da lungo tempo ai Farnese, nel 1537, anno di formazione del Ducato, il Sangallo si trova all’apice di una serie ininterrotta di successi professionali, che, dopo la diaspora seguita al sacco romano, hanno fatto di lui uno dei portabandiera della ricerca architettonica antiquaria, applicata con soluzioni originali anche agli edifici progettati per Castro: il Palazzo Ducale, l’Hostaria, la Zecca, i palazzi privati, il convento di S. Francesco.
Il Sangallo restaura inoltre il Duomo di S. Savino, progetta la fortificazione della città, il bastione della fortezza a strapiombo sull’Olpeta, il forte reale a forma di pentagono davanti all’ingresso principale della città e la doppia Porta Lamberta. E’ il Vasari la fonte documentaria di tale trasformazione: “Morto Clemente e creato poi Papa Paolo III Farnese, venne Antonio, essendo stato amico del Papa mentre era cardinale, in maggior credito poiché avendo Sua Santità fatto Duca di Castro il Signor Pier Luigi suo figliolo, mandò Antonio a fare il disegno della fortificazione che quel Duca vi fece fondare e del palazzo che sulla piazza è chiamato l’Hosteria e della Zecca che nel medesimo luogo, murata di travertino a similitudine di quella Roma. Né questi disegni solamente fece Antonio in quella città, ma ancora molti altri di palazzi ed altre fabbriche a diverse persone terrazzane e forestiere che edificarono con tanta spesa che a chi non le vede pare incredibile … il che non ha dubbio, fu fatto da molti per far piacere al Papa … “.
L’opera del Sangallo a Castro, la rielaborazione organica, urbanistica ed architettonica della città medioevale secondo canoni e schemi impostativi rinascimentali, è paragonabile a quella dell’Architetto Rossellino, che trasformò Pienza in vera città rinascimentale per Papa Piccolomini. Nel 1545, il trasferimento del Duca, insignito del Ducato di Parma e Piacenza, più grande e prestigioso, segna l’inizio della decadenza di Castro con conseguente depauperamento di genti e di beni. I progetti sangalleschi non vengono portati a compimento. L’esodo seguito al trasferimento di Pier Luigi comporta il venir meno della volontà di spendere in Castro somme notevoli, richieste invece pressantemente da altri progetti farnesiani.
E’ dato storico che la nuova unità stilistica urbanistico-architettonica per Castro, totalmente ridisegnata dal Sangallo, non ebbe mai modo di realizzarsi: fu costruita solo parzialmente la nuova piazza, mentre furono ben presto abbandonate e probabilmente non completate numerose abitazioni progettate dal famoso architetto. Gustavo Giovannoni nel suo studio del 1959 su Antonio da Sangallo il Giovane, scrive: “Strane sorti quelle tra loro connesse di Antonio da Sangallo e della città di Castro. Il primo, che pure è stato il maggiore reaIizzatore dell’architettura dei ‘500, non ci ha lasciato alcuna opera architettonica che ci sia pervenuta integralmente sua. Castro, nata con una energia cosi fervida e rapida da ricordare, a dire di Annibal Caro, il Rinascimento di Cartagine, è stata un secolo dopo completamente distrutta … “
disegno del Sangallo per la facciata del Palazzo Ducale (Archivio Uffizi n.1684)
Resti di pavimentazione in laterizio a spina di pesce nella Piazza Maggiore
Resti della facciata della Zecca, atterrata nella demolizione, in cui si riconoscono gli elementi del bugnato inferiore
I debiti contratti dai Farnese (che da Parma si disinteressarono della città di Maremma, sebbene ne traessero cospicue rendite a garanzia dei “Monti Farnesiani, costituiti a Roma per permettere gli sfarzi della corte parmense) e la loro insolvenza verso i banchieri romani, l’ostilità delle nobili famiglie romane, la stessa autonomia ottenuta nell’ambito dello Stato Pontificio da Castro e il suo Ducato, determinarono contrasti acerrimi con l’Amministrazione Pontificia che sfociarono nella “Guerra di Castro” (1641-1644).
Nel 1648 la sede vescovile di Castro, vacante dal 1646, venne affidata da Papa Innocenzo X al barnabita Cristoforo Giarda contro il volere di Ranuccio II, ultimo Duca di Castro, il quale pretendeva di applicare, come era stata la prassi fino ad allora, la prerogativa ducale di segnalare e nominare il vescovo nel suo Stato. L’assassinio del presule, compiuto lungo la via Cassia durante il viaggio verso Castro, ad opera di sicari di Ranuccio II, provocò la risposta tremenda di Innocenzo X: l’ordine di occupare il Ducato di Castro e di demolire la città capitale fin dalle fondamenta.
I cittadini di Castro vennero scacciati e dispersi nei centri vicini e la città messa a sacco e rasa al suolo con metodica determinazione, dal settembre al dicembre 1649. Si tramanda che venne gettato sale sulle rovine ed a ricordo della città fu posta una colonna su cui la scritta “Qui fu castro”, ne decretava la definitiva scomparsa.
Secondo le fonti ed in base ai riscontri archeologici, la distruzione sistematica degli edifici venne effettuata mediante picconi, leggere mine, uso di funi. Lo smantellamento, soprattutto per quanto riguarda le facciate, fu realizzato per ribaltamento a 90′, dalla posizione verticale all’orizzontale, lasciando in situ le macerie spesso a coprire le strutture ancora in piedi dei piani inferiori dei palazzi. Gli edifici, costruiti in blocchi di tufo con membrature architettoniche in travertino, vennero per così dire “smontati”, ed elementi pressoché integri lasciati al suolo.
Nel corso dei secoli, l’azione della natura, l’incuria totale ed il saccheggio continuo, hanno falsato l’aspetto del pianoro su cui sorgeva la città, tanto che, allo stato attuale, è difficile avere una chiara disposizione planimetrica della città. Questa può essere comunque suggerita e ricostruita tramite stampe e disegni dell’epoca. Una riproduzione attendibile dell’immagine storica della città e degli edifici del Sangallo (in particolare le strutture che si affacciavano sulla piazza Maggiore, localizzata dagli scavi archeologici degli anni ’60-’70) è oggi possibile grazie al fatto di essere questi ultimi perfettamente documentati dai progetti originali dell’architetto conservati agli Uffizi di Firenze e dalla serie di disegni anonimi della Biblioteca Apostolica Vaticana. La presenza di tale documentazione, lo studio e l’interpretazione degli elementi strutturali ancora affioranti, o che potrebbero essere recuperati tramite una razionale indagine stratigrafica, permetterebbero il ripristino di alcuni edifici meglio conservati e la ricostruzione, in plastico o virtuale, del centro monumentale.
Come accennato, già nel 1961, gli scavi condotti da Scipione Tadolini portarono alla luce reperti sani di circa un terzo della Piazza Maggiore, ma degli elementi rinvenuti non venne effettuato esatto rilievo nella disposizione originaria, né inventario o catalogazione, il che avrebbe permesso di elaborare almeno un primo intervento di restauro. La rimozione arbitraria delle strutture recuperate ed il susseguente inarrestato spoglio da parte di clandestini, ha provocato la mescolanza della sequenza architettonica degli edifici scavati, nonché la perdita di tasselli indispensabili alla loro ricostruzione, seppur ideale. Nel 1967, gli scavi di Paolo Mezzetti presso il Duomo di S. Savino, hanno permesso di ricostruire il perimetro laterale della chiesa ed il recupero di elementi frontali romanici, con figure antropomorfe e di animali fantastici, attualmente esposte nel Museo Civico Archeologico di Ischia di Castro. Approfondire la ricerca secondo i moderni dettami e metodologie della scienza archeologica in tali aree ne faciliterebbe certamente il ripristino ideale.
E’ del luglio 1997 l’ultima scoperta sensazionale dell’indagine archeologica: i resti della chiesa di S. Maria intus civitatem, la prima cattedrale di Castro. Si tratta di un braccio del transetto concluso da un’abside semicircolare, sulle cui pareti campeggiano importanti lacerti di decorazione pittorica ad affresco.
Una tale realtà storico-archeologica, una città sepolta sotto bosco, si potrebbe dire una moderna Pompei da scoprire, si impone nell’ambito della politica di recupero e valorizzazione dei beni culturali, storico-artistici in particolare. Disseppellire gli edifici, restaurarli e valorizzarli, ricostruire l’assetto urbanistico della città, costituirebbe non solo il recupero di testimonianze del passato, ma, attraverso un processo di trasformazione e gestione competente, la creazione di spazi per produrre cultura ed economia a servizio dell’intera comunità.
Oggi, dopo anni di intense trattative, l’area della città, parcellizzata tra più proprietari, è divenuta proprietà del Comune di Ischia di Castro. Con questo atto di acquisizione pubblica la città è stata restituita alla gente di Castro, a tutti i probabili discendenti delle famiglie castrensi costrette ad emigrare ed umiliate nella privazione delle proprie case, vie e piazze, nell’impossibilità di un ritorno, nella stessa negazione della speranza di ricostruire.
Abside ed altare del braccio destro del transetto della Chiesa di S. Maria intus civitatem (Prima Cattedrale di Castro). Nella fascia dell’architrave si legge il nome di Girolamo Spontoni, dedicante dell’altare
L’arcangelo Uriele conduce nel deserto San Giovanni Bambino –dettaglio Chiesa di S. Maria intus civitatem (Prima Cattedrale di Castro)
Il significato di questa riappropriazione alla comunità intera è una sfida a ricreare non solo l’aspetto della città del 1500 con indagini scientifiche e ricostruzioni virtuali, ma a ridarle vita grazie alla gente che percorrerà ancora quei sentieri una volta strade cittadine, non più con l’intento di depredare, ma di ascoltare, comprendere, partecipare e godere della natura e della propria storia.
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Un uomo del passato
creatore di oggetti,
il tempo,
il lavoro di un uomo di oggi
un archeologo …
e quegli oggetti diventano
tracce, indizi
lasciati senza la consapevolezza
che potessero divenire memoria.
Nel museo
si coagula il senso delle nostre origini ….
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Tra gli affreschi rinvenuti a Castro, all’interno della Chiesa S. Maria intus civitatem, il frammento raffigurante l’arcangelo Uriele con San Giovanni Battista è sicuramente tra i più interessanti e di controversa interpretazione. Lo studio iconografico ha privilegiato il metodo comparativo. Ciò ha permesso di collocare il frammento dell’affresco ritrovato all’interno della tradizione iconografica riguardante la vita di San Giovanni Battista.
L’arcangelo Uriele conduce nel deserto San Giovanni Battista bambino – dettaglio Chiesa di S. Maria intus civitatem (Prima Cattedrale di Castro)
Pittore attivo a Genova, Storie di san Giovanni Battista, L’angelo guida san Giovanni Battista nel deserto, dettaglio- 1292 circa, Genova, Museo di Sant’Agostino.
Rappresentato con fattezze di uomo alato, in alcuni casi può essere armato o con i pianeti come attributo iconografico. Accompagna il piccolo san Giovanni Battista.
Nome: di origine ebraica, da ‘Uri’El, significa “Dio è mia luce”
Protezione: custode del tempo e degli astri
Ai tempi di Sant’Ambrogio, l’arcangelo Uriele era molto venerato, ma col tempo venne dimenticato, principalmente per il fatto di non essere citato se non in fonti apocrife, in particolare nel libro apocrifo di Enoc etiope. Per questo fu escluso dagli angeli accettati dalla Chiesa cattolica in seguito al concilio di Aquisgrana del 789. Nonostante sia rimasto vivo il suo ricordo nell’angelologia moderna, la sua iconografia non ebbe modo di svilupparsi particolarmente. Essendo l’arte principalmente legata all’ambiente ufficiale della Chiesa, non era apprezzata la sua raffigurazione, tranne nelle storie del Battista. Secondo la letteratura apocrifa, Giovanni il Battista da bambino fu affidato all’istruzione di Dio e per questo fu accompagnato nel deserto da Uriele, uno dei sette arcangeli della tradizione del libro di Enoch. Il gesto dell’angelo che si addentra nelle zone impervie del deserto è quello di chi accompagna con cura e attenzione. Particolarmente suggestivo il modo con cui Uriele afferra il braccio del piccolo Giovanni Battista.
Pittore attivo a Genova, Storie di san Giovanni Battista, L’angelo guida san Giovanni Battista nel deserto, 1292 circa, Genova, Museo di Sant’Agostino.
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La documentazione fotografica è stata gentilmente concessa dalla Dott.ssa Anna Laura direttrice del museo civico archeologico “Pietro e Turiddo Lotti” – Ischia di Castro