Dove inizia la storia… la coltivazione e lavorazione della canapa

foto by Gioacchino Bordo
MARIA GIUSEPPA BRIZI RACCONTA ...

“Ricordo che la canapa veniva seminata nelle vallette comode intorno al paese. Proprio per questo utilizzo venivano chiamate canepule o caneparo. A PIANSANO la coltivazione della canapa è continuata fino agli anni cinquanta. Per una famiglia avere la possibilità di coltivare un pezzetto di terra a canapa significava avere una ricchezza grande, soprattutto per chi aveva “figlie da maritare” e perciò aveva la necessità di realizzare corredi.  Era  un impegno gravoso. La mia famiglia ha avuto questa possibilità. Ricordo il periodo della semina e quei piccoli semi di canapa  che si potevano anche mangiare!

Una volta che la pianta aveva raggiunto la piena maturazione veniva tagliata con la falce e, raccolta in fasci, veniva  portata a macerare  nelle acque del LAGO DI BOLSENA. Per i piansanesi le acque più comode erano quelle della spiaggia di Bisenzio.  In particolare verso GRADOLI c’era un canalone di raccolta delle acque che confluivano al lago. In questo canalone i fasci di canapa venivano immersi e assicurati con dei grandi sassi. L’operazione doveva impedire che la corrente  e le onde minacciassero il prezioso raccolto che veniva lasciato lì, “incustodito”, per diversi giorni. Oggi sembra quasi incredibile  che  ci si dovesse difendere soltanto  dalla minaccia delle acque. C’era un clima di profonda fiducia tra le persone e difficilmente succedeva che il raccolto venisse rubato.

Una volta  che la macerazione era avvenuta, si recuperava il “cuore” della canapa  che veniva lasciato asciugare al sole.  Poi si procedeva alla “cardatura” della canapa grezza. Ricordo che veniva una persona da Onano per questo tipo di operazione. Poi si procedeva alla filatura e successivamente alla tessitura. Anche la mia famiglia si è rivolta alla tessitrice piansanese  Antonia Barbieri, soprattutto per la realizzazione delle lenzuola e  delle  tovaglie. Era molto brava! Era soprannominata “Antonia del Bastaro”, perché il marito realizzava i basti per gli animali da tiro, necessari in molte le attività agricole”. 

PER SAPERNE PIÚ… 

a cura di TERESA MOSCHINI

La storia del rotolo di panno si lega strettamente a quella della coltivazione della canapa molto diffusa nel nostro territorio, specialmente nei paesi intorno al lago di Bolsena. Già al tempo dei Farnese coltivare la canapa era uso frequente nel Ducato di Castro. Produrre il panno, era così importante nell’economia familiare di sussistenza di un tempo che un pezzo di terreno era tenuto sempre a disposizione per la coltura della canapa o del lino. Ogni famiglia, per soddisfare il proprio fabbisogno, produceva da sei a dieci fasci di canne (canapa) da cui si potevano ricavare almeno una coppia di lenzuola, una tovaglia, un paio di vestiti, alcuni sacchi e un paia di bisacce.

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La canapa (cannabis sativa), seminata in primavera nei campi di fondovalle freschi e profondi, raggiungeva la maturazione completa verso la fine di agosto. Veniva quindi tagliata e legata in fasci, pronta per essere insabbiata in riva al lago a macerare. La macerazione sott’acqua durava circa dieci giorni dopo di che, all’inizio del mese di settembre, i fasci venivano estratti e disposti in fila lungo la spiaggia per essere asciugati al sole.

Una volta che le piante di canapa erano ben asciutte, venivano poste su una specie di cavalletto chiamato ammaccatoio per essere scotolate, ovvero percosse con la scotola fino a quan­do le fibre tessili si separavano da quelle legnose. Le piante venivano distinte in maschi e femmine: i maschi erano quelle con lo stelo piuttosto grosso e producevano semi; le femmine erano più sottili e prive di semi e per questo offrivano una canapa di qualità migliore. Quella ricavata dai maschi, grossolana e dura, non permetteva di ottenere un filo sottile ed era perciò  utilizzata nella tessitura esclusivamente per confezionare panno grosso ad uso di cucina, lenzuola usate nella battitura del grano (“le bannellone”), ma anche per fabbricare sacchi per il trasporto e la conservazione dei semi stessi (“le saccone”), e corde che a loro volta erano di qualità diversa a seconda della canapa usata.

Rotolo originale in canapa e cotone, già abbastanza raffinato, tessuto a telaio. La canapa era di produzione della famiglia Papacchini-Brizi, genitori di Dina. La tessitrice si chiamava Antonia Barbieri.

Quella delle corde era una produzione parallela alla tessitura: talora esse venivano torte in casa, normalmente dal “cordaro”, figura per molti aspetti analoga a quella del lanaro e del canaparo.  

Un tempo era facile vedere donne anziane, sedute fuori della porta di casa, che filavano la canapa “armate” di rocca e fuso . La canapa filata veniva raccolta in matasse (acce) con l’aiuto di un rudimentale attrezzo di legno chiamato naspo quindi, lavata più volte nella ciocca del bucato con trattamenti a base di cenere. Le acce, una volta imbiancate, venivano poste sul “depanatoro” (it. arcolaio) onde evitare che il filato si imbrogliasse, aggomitolate e consegnate alle tessitrici per la tessitura. Dai telai rumorosi, ma efficienti, uscivano i caratteristici rotoli detti appunti torselli. La tessitura, così come la filatura e la cura del panno (imbiancatura) erano attività essenzialmente femminili, richiedevano pazienza, competenza e buona tecnica.

Il telaio consentiva tele piuttosto basse in quanto il passetto (unità di misura del telaio stesso), andava da un minimo di 60 cm. ad un massimo di 90. Quando il lavoro della tessitura era terminato, perché raggiunto un certo quantitativo di tessuto, (in genere nove metri di lunghezza, misura ottima le di ciascun rotolo e standard per realizzare un lenzuolo matrimoniale), si procedeva alla cura del panno.

La tela veniva imbiancata con ripetuti bucati e con la successiva esposizione al sole, quindi, ripiegata a metà nel senso della lunghezza, poi arrotolata su un matterello in modo da avere dei torselli ben compatti e regolari. La qualità e la quantità delle tele dipendeva dalla disponibilità delle famiglie stesse; chi poteva utilizzava il più costoso cotone almeno per l’ordito, da tramare poi con la canapa o con il lino.

Il telaio più usato nei centri dell’Alta Tuscia era il  telaio orizzontale a due o a quattro linee, che la tessitrice azionava con due o quattro pedali.

Era una macchina abbastanza com­plessa che richiedeva molta mol­ta pazienza e buona tecnica soprattutto nei movimenti che servivano alla tessitrice per replicare tessuti operati.

Prima di precedere alla tessi­tura bisognava montare l’ordito sul rullo posteriore (subbio) del telaio con cura ed attenzione affinché i fili non si imbrogliassero.

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